Quando i bambini vestivano da grandi
Stile epistolare per raccontare, senza troppo appesantire, come l’abbigliamento sia legato al costume, alla storia e alla psicologia.
Da “Il Piccolo Principe”
Tutti i grandi sono stati bambini una volta.
(Ma pochi di essi se ne ricordano.)
Quando i bambini vestivano da grandi
Nel cassetto dei pensieri ho trovato questa lettera immaginaria scritta da un bambino a una amica altrettanto immaginari.
Sono due personaggi di qualche secolo fa, quando i bambini erano considerati dei “grandi in miniatura”.
Non mi è mai stata del tutto chiara questa visione lillipuziana, ma tal era, fortuna che poi è cambiata.
Ecco la lettera del bambino, dettata allo scrivano di famiglia e da questi “immaginariamente” corretta.
Cara Amica Mia,
come certo ricorderai due anni fa ho festeggiato il mio quinto compleanno, e da allora è con gaiezza che più non indosso la lunga tunica come le mie consanguine femmine.
Nel rispetto e considerazione del rango della mia famiglia, è or dunque giunto il tempo di più propriamente abbigliarmi, tant’è che da tre mesi indosso l’armatura.
Orgoglio e vanità mi hanno pervaso sin dal primo giorno.
Poter avanzare per strada, ma anche solo per i corridoi di casa o lungo il viale dei giardini, vestito in siffatta maniera al pari del mio signore padre, mi ha reso degno di onore agli occhi in primis delle piccole sorelle e a seguire di tutta la servitù.
Pure la mia signora madre ora sta al mio cospetto con mutato atteggiamento.
E a te, cara Amica Mia, voglio qui con vanto confessare che ho vesciche ovunque.
Sebbene dolore e purulenza, non è inusuale accadda, abbiano la meglio ciò non infrange il mio stato di contentezza.
Mia speme che quanto prima la mia pelle si indurisca, le mie ossa si adattino e le mie carni non dolgano più.
L’impresa più ardua si è presenta qualche giorno fa, quando dovetti affiancare il mio signore padre nella visita in paese.
Pur essendo il mio cavallo non molto alto, mi fu chiara sin dalla prima vista l’arduità della salita, ma nulla di grave, due servitori presomi uno da una parte e uno dall’altra mi issarono sulla sella.
Lungo la strada avvertivo qualche dolore alla seduta, ma è nostro destino e responsabilità accettare e abituarci a tali piccolezze.
Cammin facendo, la vista del misero popolo, che senza alcuna protezione avanzava quasi dinoccolato vestendo panni cadenti senza rinforzo alcuno, mi ha reso chiara l’importanza di indossare sin da ora l’armatura che permetterà al mio corpo di diventare virile e forte.
Ti porto a conoscenza di tali mie fisiche pene, per condividere con te sin da ora ogni mia verità, in attesa di incontrarti tra sette anni per organizzare le nostre nozze.
Il tuo futuro sposo.
Quando si parla di abbigliamento infantile, in riferimento al passato, una cruciale distinzione da fare è quella tra ricchi e poveri.
La storia del costume riporta molte indicazioni in merito, ma quasi esclusivamente trattano di coloro i quali un vestito potevano permetterlo.
La parte più numerosa era il popolo, che riusciva a vestirsi grazie a mamme maestre nell’arte del riciclo.
Consuetudine comune a tutti, sino agli inizi del novecento, la lunga tunica uguale sia per maschi che femmine, quasi sempre a tinta unita nera, marrone oppure rossa.
Per i benestanti di pregiato tessuto, per il poverelli ricavata, talvolta, da una vecchia coperta.
Leggiamo ora la risposta della bambina che abbiamo sopra scoperto essere la futura sposa del bambino immaginario, vissuti probabilmente a cavallo tra il 1500 e 1600.
Ecco la lettera scritta di proprio pugno dalla piccola (ndr: in un passato immaginario ritengo buona cosa far sì che la controparte femminile sia in grado di scrivere da sola).
Caro Mio Futuro Sposo,
mi rivolgo a voi con sottomissione e per ricambiare la vostra fiducia nel narrar il vostro patire, di cui nel profondo mi dolgo, voglio qui riportare le mie vicissitudini del vestir trattando.
Come ben sapete, non che sia vostro compito e obbligo rammentare i miei anni, sono giunta pure me medesima all’età del vestir come si confà a una donna completa.
Vi debbo dire che l’eleganza porta con sé le sue pene.
La gorgiera al collo mi rende altera, sebbene pizzichi e impedisca di guardare a destra e manca, per non parlar di guardare al suolo. La sol cosa che permette di fare è di volgere gli occhi al cielo.
Con la guardinfante ho iniziato a muovermi senza arreccare danni agli arredi, e di questo vado orgogliosa. Mi è stato donata dalla signora nonna insieme a un busto di stecche di balena che rende il mio vitino molto sottile.
Per confidarmi al pari vostro, vi dirò che tal bustino lascia i segni sulla mia pelle e accade che non riesca a ben respirare. La mia signora madre, però, ha detto che è normale, tutte noi donne, si sa, sian soggette a dei mancamenti.
In attesa che questi sette anni trascorrano, vi saluto con reverenza.
La vostra futura sposa.
Nei secoli scorsi i bambini, maschietti e femminucce, erano considerati dei piccoli adulti, come se a crescere dovesse essere solo il corpo.
Non si considerava la crescita psicologica allo stesso modo in cui si ignorava l’importanza di permettere al corpo, scheletro compreso, di svilupparsi fisiologicamente.
A partire dalla nascita era consuetudine fasciare dalla testa ai piedi i neonati, convinti che questo prevenisse le malformazioni ossee. Col passare dei mesi la fasciatura veniva tolta, prima si lasciavano libere le braccia, poi le gambe e per finire il busto.
Dai primi passi sino a circa i 5 anni entrambi i sessi erano vestiti allo stesso modo, con la tunica con spacchi laterali per agevolare i movimenti, frontali e posteriori per l’igiene dei bisogni corporali. Dal 1500 in poi, subentrò una variante, ossia: una veste del tutto simile a quella femminile adulta, dunque gonna lunga, corsetto e grembiule, sia per maschi che per femmine.
(Nrd: alla faccia delle possibili crisi di identità sia per l’uno che per l’altra. Passi la gonna, passi il grembiule, ma quello che personalmente mi sconcerta è il corsetto).
Nei secoli a seguire altre variazioni, come le dande, delle strisce di tessuto che dalle spalle scendevano lungo la schiena, la loro (del tutto ipotetica) funzione era quella di permettere ai piccoli di imparare a camminare senza cadere.
Dunque, dopo un anno di fasciatura tipo mummia, altri quattro indossando solo una tunica che lasciava la parte inferiore del corpo esposta alle intemperie, o un corsetto che costringeva i polmoni, l’infante (se sopravviveva) all’età di cinque o sei anni iniziava a vestirsi di tutto punto come un adulto.
Si intuisce facilmente che la vera rivoluzione nel vestiario avveniva per i maschi, i quali iniziavano a indossare le braghe e in aggiunta, se di rango, delle piccole armature.
Per le femmine iniziava la tortura del busto fatto di stecche di balena e in taluni casi di metallo, che si sosteneva avesse lo scopo di modellare il corpo e rendere il punto di vita sottile.
Piccoli adulti, piccoli solo nel fisico, così erano considerati i bambini.
Il gioco non era contemplato.
Ma, avessero voluto e potuto giocare, ve li immaginate?
I maschietti con adosso un’armatura di metallo e le bimbe con busto, acconciature statuarie e guardinfante.
Quest’ultimo era quella specie di “impalcatura” (passatemi il termine) che le donne indossavano sotto le gonne per renderle ampie e tese. La sua origine, come si può intuire dal nome stesso (fare la guardia all’infante), era di proteggere il pancione delle donne incinte. Una serie di cilindri, spesso di metallo, di diametro crescente verso il basso. Col tempo il metallo fu sostituito dal vimini per allegerne il peso, ma di certo non i movimenti.
Così per secoli, sino a quando non arrivò un signore che parlò del bambino Émile, e scrisse:
” Émile deve poter correre, vivere molto all’aperto, a testa scoperta, deve avere abiti sciolti che non costringano l’esile busto, che non comprimano i polmoni.”
Una rivoluzione in campo pedagogico!
Questo signore era svizzero di lingua francese, scrittore, musicista e filosofo, era Jean Jacques Rousseau. L’opera: “Émile, ou de l’Éducation” pubblicata nel 1762.
I concetti espressi da Rousseau erano già ampiamente condivisi da medici, igienisti ed educatori; lui li espresse e finalmente si uscì dalla visione lillipuziana del bambino.
Cambiò il modo di educare e di pari passo di vestire.
In questi oltre 200 anni le evoluzioni sono state numerose e cadenzate dagli eventi sociali tanto che si potrebbero scrivere volumi di storia del costume.
Qualche esempio: i completi alla marinaretta; le braghe alla zuava che i bambini portavano almeno sino agli otto o dieci anni; le bambine sempre in gonne, anche in pieno inverno, con i calzettoni di lana rigorosamente sotto al ginocchio, e molti altri si potrebbero ricordare.
Oggi l’abbigliamento dei bambini è il risultato di ricerche di mercato, ma soprattutto rispetta le esigenze e le attività che svolgono.
Tessuti, fogge, accessori, colori e stile per rendere la vita del bambino tale, anche quando vuole essere grande, in modo che questo sia solo un desiderio e non la costrizione di esserlo per davvero.
Antoine de Saint-Exupéry ne “Il Piccolo Principe” ha scritto:
Tutti i grandi sono stati bambini una volta.
(Ma pochi di essi se ne ricordano.)
Jean Jacques Rousseau, vissuto un paio di secoli prima, faceva parte dei pochi.
fosca bruni – articolo pubblicato da “Altro Stile”